Il ROI dei Social Media (?) (The Big Misunderstanding Blues)

Un bellissimo articolo di Taylor Ellwood su Biznik offre un interessante punto di vista sulla spinosa questione del calcolo del ROI rispetto a un investimento aziendale nei social media.
glicine Premetto che, personalmente, queste problematiche mi ispirano sempre l’immagine di qualcuno che, con un metro a nastro in mano, in piedi, a fianco di una grande pianta di glicine, si chiede come misurare l’intensità del profumo per decidere se inspirarlo o meno.
Floricultura a parte, vi propongo alcuni stralci del ragionamento di Taylor.
“…Molte aziende chiedono di poter calcolare il ROI per i Social Media, ma non comprendono che prima devono investire nei social media, costruire relazioni e poi potranno raccoglierne il “return”
In sostanza l’azienda chiede: – Quando comincerò a fare soldi grazie alle mie attività sui social media ? – Questo significa che l’azienda è disponibile ad entrare in questo mondo solo se ha la certezza che ne otterrà nuovi clienti e risultati economici. Il problema di questa mentalità è che considera di fatto gli appartenenti ai social media dei numeri (…)
Le aziende che si preoccupano solo del ROI rispetto ai social media non comprendono che i social media non sono il luogo delle vendite, ma il luogo del networking e del marketing, il luogo (soprattutto) dove si costruiscono relazioni.
La realizzazione economica (la vendita) accade quando la relazione è stata costruita e sostenuta al punto in cui esiste fiducia e riconoscimento sufficiente per generare l’acquisto. Occorre tempo per costruire valore, e con i social media il processo può essere ancora più lungo,  perché le interazioni avvengono in un ambiente virtuale.
L’attività sui social media è parte del processo di costruzione della relazione, con l’obbiettivo di rimanere visibili, rafforzare al propria reputazione e condividere informazioni. (…)
La miglior strategia con i social media prende innanzi tutto atto dei limiti intriseci del mezzo in se’. Occorre che la conversazione che viene aperta sia trasparente, senza un’agenda nascosta. Quel che è necessario comprendere è che una attività sui social media permette di imparare molto su come offrire un miglior servizio ai propri clienti, come avere una miglior visibilità, come costruire relazioni durature.      
Conclude Taylor
“What social media can’t do is automatically line people up to do business with you. That only occurs if you are willing to invest time in building relationships with those people, and social media is integral to building those relationships will become more integral as it becomes more integrated into our lives.”

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Social Media Marketing: senza competenze non si va da nessuna parte (No Skills no Party Blues)

Prendo spunto dall’interessante articolo di David Lux sull’esperienza americana di Ford sui social media per la promozione della Fiesta.
Scrive David: “..Ford has embraced social networking rather than taking a traditional marketing approach to drive buzz. Without breaking the bank or burning through massive media budgets, Ford was able to promote the Fiesta nameplate, gain traction with consumers, and get people to connect with the Fiesta in an all-new way. Best of all, the excitement continued to brew months before the Fiesta had even been unveiled.”
Ford ha avuto in questa circostanza il coraggio e la necessaria convinzione per puntare con decisione e coerenza su una campagna di social media marketing articolata su YouTube, Flickr, Twitter, e Facebook. 

L’attività di Ford si è incentrata sull’iniziativa Fiesta Movement:  “..The Fiesta Movement promotes the small car through 100 “socially connected trendsetters” referred to as agents that have been driving Euro-spec Fiestas and taking part in monthly themed “missions” such as volunteerism, adventure, and style and design. Each of these agents discusses their missions and their experience with the Fiesta through social media”

Attraverso questa strategia coordinata Ford ha generato 6 milioni di views su You Tube, 740.000 su Flickr, e più di 3,7 milioni su Twitter. E 80.000 clienti hanno già alzato la mano per prenotare una Fiesta.
Secondo  Scott Monty, Director of Social Media in Ford, …”Social media is “common sense” , but he also notes it’s important to listen – perhaps more so than talk. Opening up a Twitter account is so easy that car dealers often yield to the temptation to tweet inventory or specials, which honestly is a quick way to lose followers. Regarding the tendency to sell on Twitter, Monty says, “Just because you can, doesn’t mean you should.” It’s a valuable lesson that more dealers are realizing.”
Insomma, quel che occorre sono una reale valutazione delle potenzialità dei social media in rapporto al proprio target, e un approccio che comprenda sino in fondo caratteristiche e dinamiche, senza commettere il grossolano errore di trattarli ne’ più ne’ meno come dei media tradizionali. Mi pare che spesso le aziende si affaccino sui social  media in modo quasi “forzato”, come se semplicemente non se ne potesse fare più a meno, ma non si tratti di scelte fatte con la dovuta convinzione e senza sforzarsi di comprenderne la natura, così diversa dagli strumenti del marketing tradizionale. Anche gli strumenti di valutazione dei risultati sono ovviamente diversi, e questo è un altro aspetto che va chiarito in fase progettuale.
Conclude David. “There are plenty of creative opportunities that are possible with social media. Looking at the success of the Fiesta Movement, one important lesson to learn is that listening and being active in conversation is crucial. Sure this may sound intuitive, but all too often car dealers and even Fortune 500 companies are too focused on controlling conversation. By giving up of little bit of control, you may be able to gain a little trust too.”
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Guardarsi dentro… ma sarebbe meglio fuori. (Insight Communication Blues)

duke_hiSuccede.

Alla fine succede sempre. Anche con i migliori clienti.

Succede che in azienda accade qualcosa che viene percepito internamente come un fatto importante, significativo. Qualcosa per cui il marketer aziendale (o chi per lui) va in fibrillazione e  si convince che questo fatto costituisca un “contenuto” assolutamente rilevante per il mondo esterno, che è assolutamente necessario trasferire al di fuori dell’azienda.

Si opera in sostanza una traslazione del valore della notizia da interno a esterno, e si crea attorno ad essa una (pericolosa) aspettativa in termini di attenzione dei media e dei relativi risultati di copertura.

Questa aspettativa si traduce poi in uno sforzo richiesto all’agenzia di PR per produrre quei risultati che in realtà non era lecito attendersi.

Sono evidenti gli svantaggi derivanti da questo genere di situazioni:

  • i consulenti di comunicazione (o chi per essi) investono tempo, energie e risorse verso un obbiettivo scorretto
  • si crea un inutile e in realtà ingiustificato senso di frustrazione per i risultati ottenuti (che non possono che essere scarsi)
  • si sottopongono i giornalisti coinvolti ad un inutile ed esasperante lavoro di sollecitazione per ottenere il famigerato “articolo”, ingenerando quindi fastidio e antipatia verso l’azienda e verso l’agenzia, mettendo inutilmente a rischio la qualità dei rapporti con i giornalisti stessi. 
  • si perdono di vista altri stakeholders (diversi dai media, ad esempio dipendenti o fornitori), sui quali sarebbe invece stato utile concentrarsi.

Mi rendo conto che chi vive intensamente al vita aziendale possa facilmente cadere in equivoci di questo genere, ed è importante che il consulente esterno abbia il coraggio di chiarire da subito cosa sta accadendo: è un servizio che rende al cliente e a se’ stesso, anche se non è sempre facile ne’ piacevole  “smorzare ” gli entusiasmi.

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Unpacking … (Unpacking 2.0 Blues)

Ieri pomeriggio ho partecipato (sia in veste di blogger che di attore coinvolto in una delle inziative legate all’evento) a Unpacking SMAU, una inusuale introduzione/presentazione a SMAU dedicata alla blogosfera, dove nell’ambito del concitato clima di allestimento del giorno prima dell’apertura, SMAU ha voluto sperimentare ( a mio modo di vedere con successo) un contatto diverso e specifico con i blogger italiani.

Nel corso dell’incontro sono stati presentati i risultati di una survey esplorativa circa l’effettivo utilizzo dei tool "web 2.0" da parte delle aziende IT italiane. Un lavoro che offre parecchi spunti di lettura alle aziende e agli operatori della comunicazione.

La survey, promossa per SMAU da 1000Ottani, è stata condotta attraverso il sito Surveye.info, a cura di Quorum PR ( la mia agenzia)

Per vederla (in formato PDF) potete cliccare qui

In ogni caso ecco una breve sintesi praparata da Matteo Ranzi di 1000Ottani

"L’indagine svolta ha visto la partecipazione di 98 aziende, principalmente Vendor, eterogenee per dimensione, tipologia merceologica specifica e segmenti di mercato di riferimento. Il 96% dei partecipanti appartiene ai reparti Direzione generale, Direzione Marketing e Direzione vendite.

Dai risultati ottenuti dalla presente indagine risulta un rapporto tra Player dell’Information Technology e Web 2.0 in fase di evoluzione verso un nuovo scenario.
La conoscenza generale del fenomeno risulta considerevole: più del 90% dichiara infatti di conoscere Blog, Social Network, Web Video e Forum.
La presenza del Web 2.0 appare superiore nella vita privata che nelle strategie delle aziende. L’89% dei rispondenti frequenta infatti personalmente ambiti di Social Networking, mentre le imprese che utilizzano in generale i nuovi strumenti sono il 52% del panel analizzato.
In azienda al momento prevalgono Web Video, Forum e Social Networking.
Il 72% dei Player che frequenta attivamente ambiti web 2.0 lo fa da meno di un anno. Il 74% delle aziende che non lo fa intende attivarsi in futuro prevalentemente con soluzioni sviluppate internamente. Gli investimenti marketing nei prossimi anni verranno indirizzati verso il web 2.0, per il 79% dei partecipanti.

In conclusione si può affermare che all’iniziale perplessità di Manager ed aziende verso la novità del Web 2.0 riscontrate negli anni scorsi, siamo in presenza di una fase di incremento di conoscenza ed interesse che porterà entro breve ad una adozione massiva di nuovi strumenti. Si tratta di una evoluzione epocale che modificherà il modo di fare marketing e di rapportarsi con il pubblico di riferimento anche nel settore I.T."

Meditiamo gente, meditiamo….

P.s: fate una ricerca su twitter con "Unpacking smau", interessante…

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Contenuti, sempre, fortissimamente contenuti.. (Content the King Blues)


Beh, adesso che anche il signor Guy Kawasaki lo ribadisce, assieme a Dawn Foster ci credete o no ?

…Here take on it is, “…writing compelling, interesting blog content that people will want to talk about and link to will get you around 95 percent of the way to good search engine rankings.”

Leggi anche:
I contenuti, questi sconosciuti…

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Back from holiday… (Hard Return Blues)

Vabbè, lo ammetto sono rientrato, insolitamente tardi, ma sono rientrato.

Avendo ancora negli occhi il verde della bassa Baviera e il sole dell’Elba, lo schermo del computer risulta ancora un po’ sfuocato…  abbiate pazienza, mi sto riabituando…

A presto…

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Chiusura estiva… (Summer Blues)

In realtà questo blog è di fatto in ferie già da un po’ ( i più acuti tra voi lo avranno notato…).

stanchezza Spero che la pausa mi aiuti a ricaricare un po’ le batterie (giunte quest’anno quasi a zero già a Giugno)

Le energie rimaste mi consentono ancora qualche colpo di Twitter, ma non di più.

A Settembre ! Buone vacanze a tutti  i 6 o 7 lettori di questo blog ! ;-)

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I contenuti, questi sconosciuti (Content Marketing Blues)

Vorrei oggi proporVi una rapida ma salutare riflessione sul tema dei “contenuti” , ovvero su quella cosa che dovrebbe spingere il vostro amato e mai abbastanza conosciuto  “target”   a visitare ( e tornare a visitare) i vostri siti, blog, portali, wiki o qualsivoglia presenza online di tipo continuativo.

Trovo interessante e ricco di spunti il decalogo proposto ad Kat French su Social Media Explorer. 

10-comandamenti I “comandamenti” proposti ad Kat sono i seguenti:

1. Rendi i contenuti facili da condividere.

2. “Contenuto” non significa solo “testo”: se disponibili, audio, video, podcast e immagini devono arricchire la tua offerta.

3. Non usare il termine “virale” per definire i tuoi contenuti: se i contenuti hanno valore si diffonderanno in modo automatico senza bisogno di etichettarli.

4. Non definirai il tuo programma di contenuti come una “campagna” : il content marketing implica una visione di lungo termine e si pone obbiettivi di lungo termine. La relazione che si crea attraverso i contenuti non ha una scadenza.

5. Disegna un calendario editoriale: progetta i temi e una linea di pubblicazione.

6. Chiarisci ruoli e responsabilità del progetto.

7. Attenzione agli eventuali aspetti legali ( e, aggiungerei, di netiquette circa citazioni e spunti presi online)

8. Considera ulteriori ambienti di diffusione o ripubblicazione dei contenuti, come Facebook e Twitter, ma occhio ad adattarli convenientemente ai canali specifici.

9. Non lasciare che i contenuti del tuo sito invecchino.

10.  Ricordati di “premiare” chi diffonde positivamente i tuoi contenuti: riconosci il suo impegno. Le modalità possono essere diverse e devono essere valutate caso per caso, ma non dimenticare di farlo.

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CEO or not CEO ? (CEO Reputation Blues)


Grazie a un twit dell’amico “Pedroelrey” vi segnalo un interessante articolo apparso su MarketingCharts.com relativo alla reputazione dei CEO.

Si tratta dei risultati di una ricerca promossa da Weber Shandwick su un campione di corporate executive statunitensi.

Ben due terzi degli intervistati ritiene che il CEO abbia una reputazione decisamente negativa.

Il rimedio ? La maggioranza degli intervistati ritiene che i CEO debbano essere più disponibili e imparare a comunicare in maniera più aperta.

Da sottolineare come anche a livello di comunicazione e percezione “interna” all’azienda emerga tra gli elementi chiave la “trasparenza”.

Infatti ecco alcuni degli elementi di miglioramento della reputazione indicati:

  • Holding more face-to-face meetings with employees (68%)
  • Publicly speaking up for themselves and their companies (54%).
  • Being more transparent (52%)
  • Issuing regular CEO updates about their business outlook (52%).
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Brand Community: 10 consigli utili. (Brand 2.0 Blues)

Guy Kawasaki dalle colonne di Open Forum riporta i consigli elargiti da Dave Balter, CEO e fondatore di BzzAgent, su come costruire una vera e efficace community attorno a un brand. Ve li propongo come spunti di riflessione (e magari di azione…)

  1. Focus on your customer’s needs. Si possono aggregare online centinaia di migliaia di clienti, ma il vero coinvolgimento e una reale interazione sono spesso obbiettivi lontani. La vera domanda a cui rispondere è “Perché i miei clienti dovrebbero formare una comunità attorno al mio brand ?”, e non “Quante persone posso far registrare ?”
  2. Foster many-to-many relationships. Una brand community non può basarsi su una relazione “one-to-many”. Le persone devono interagire tra loro e non sono col brand. Ecco perché e necessario prevedere una struttura che consenta comunicazione peer-to-peer.
  3. Think local. Una brand community non deve necessariamente essere realizzata solo da grandi aziende con cospicui budget. Anche una gelateria può creare una comunità attiva e contribuire al proprio successo commerciale. Suggerisce Dave: “You never know: with a successful brand community, you may become a major brand. Isn’t that the goal ?”
  4. Don’t create “more.” Se l’azienda produce già contenuti di valore per i clienti, invece di chiedere alla comunità di crearne di nuovi, preoccupatevi di rendere agevole la ricerca e la fruizione dei contenuti esistenti.
  5. Foster peer celebrity. In qualsiasi genere di comunità gli esponenti cheinteractivity contribuiscono maggiormente sono fieri che qualcuno riconosca la loro competenza, passione e esperienza. Trovate il modo id gratificare coloro che offrono di più alla comunità.
  6. Say “hey.” Sempre a proposito degli esponenti più significativi (definiti “advocates”) può essere opportuno condividere con loro qualche informazione “insider” e offrire loro, ad esempio, la preview di un nuovo prodotto.
  7. Let your advocates advocate. Il modo più efficace di trarre valore dai migliori “advocates” è lasciarli lavorare in autonomia, intervenendo solo per motivi etici o legali.
  8. Don’t merely moderate. Creare consenso è molto più che offrire un luogo di aggregazione ai clienti. Se vi limitate a controllare e “prevenire” possibili problemi non aspettatevi molto. Afferma Dave: “Don’t be afraid to get deep into the dialogue.”
  9. Keep it simple. Solo per il fatto che potete aggiungere una qualsiasi funzionalità online, non è detto sia opportuno farlo. Concentratevi su quello che viene percepito come una buona ragione per frequentare la community. Sottolinea sempre il Nostro: “Offering the hodgepodge of polls-messageboards-blogpost-videoplaylist-statusfeeds-avatars can lead to brand – and advocate – schizophrenia”
  10. Observe the 1-9-90 rule. E’ una nuova regola, suggerita da Josh Bernoff e Charlene Li nel libro Groundswell, : “1% of your population will create content, 9% will comment or engage with it, and 90% will just browse.”

Meditate marketing manager, meditate….

(Illustrazioni di James Marsh)

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