10 consigli per il Marketing durante la recessione (Downturn Marketing Blues)

Un interessante decalogo proposto da http://inmedialog.com/ , il blog dell’agenzia InMedia Public Relations, che opera prevalentemente nel settore dell’Information Technology. Vale la pena di scorrerlo e fare insieme qualche breve riflessione.

1. Svolgete tutte le attività di marketing che potete permettervi.

 bussola3 In realtà quello che vediamo nella maggior parte dei casi è una riduzione o un taglio indiscriminato degli investimenti. E tra i primi capitoli depennati c’è molto spesso la comunicazione, che sarebbe invece lo strumento più efficace e efficiente (rapporto costi – risultati) per approfittare del momento e farsi sentire più vicini ai clienti attuali, nonchè partire alla conquista di clienti nuovi grazie alla superiore visibilità rispetto ai concorrenti.

2. Ricalibrate la vostra strategia complessiva e i budget senza cadere nella facile e sbrigativa tentazione di tagliare un X% . Mai come in questi momenti è importante rivedere e chiarire gli obbiettivi e definire i mezzi per raggiungerli.

3. Ri-negoziate i prezzi con i vostri fornitori di spazi pubblicitari e fieristici o chiedete preziosi servizi aggiuntivi, (come ad esempio l’invio di white paper aziendali con le newsletter o iniziative simili)

4. Se lavorate con il canale, o comunque un sistema di partner, è il momento per consolidare i rapporti: offrite uno spazio per i partner nel vostro stand in fiera, proponete pubblicità co-branded, create opportunità di suddivisione dei costi o specifici programmi di marketing.

5.  Non smettete di misurare. Sembra una della voci di costo più facili da eliminare dal budget di marketing, ma è un errore: se non si misurano i risultati non si hanno le informazioni necessarie per definire o ridefinire le strategie: è un falso risparmio.

6. “Be transactional” . “If there is good business that can be immediately secured, beafter_the_flood highly transactional in going after it” Forse suona un po’ banale, ma questo è il momento in cui se c’è una opportunità di business, bisogna prima di tutto chiudere e poi pensare al “dopo”. E questo messaggio “buy now” deve naturalmente essere declinato in tutta la comunicazione.

7. Se invece non ci sono opportunità immediate, perché i vostri clienti comunque adottano una strategia “attendista” di fronte alla crisi, non sprecate risorse per forzare la mano, ma investite su obbiettivi di medio-lungo periodo,  “… awareness building, thought leadership and marketplace education. Tactics like media relations, trade shows and white papers that establish your authority and expertise are a better use of your resources if this is your reality. “ 

8. In tutta la comunicazione utilizzate storie che sottolineano la capacità dei vostri prodotti di generare risparmi o generare velocemente revenue. A questo proposito c’è una frase in questo post che andrebbe scolpita nella pietra e sistemata sulle scrivanie di ogni marketing manager:

“Whatever the economic conditions, your marketing and communications messaging should be all about your customer, not you. You should always be speaking to the pain your customer feels that your product or service solves.”

more_haste 9. Massima attenzione per i vostri attuali clienti.  “Love the one you’re with,” dice la canzone. “Lavish your existing customers with love, look for low-cost ways to improve the value you create for them, and communicate, communicate, communicate — let them know you love them.”

10.”Effective relationships never expire, so keep talking” Continuate a comunicare i vostri messaggi a tutti coloro che si trovano nella vostra catena del valore: fornitori, service provider, il canale, i partner, e ovviamente clienti e prospect. Può anche darsi che al momento non si possa realizzare business, ma tenere aperti i canali di comunicazione e inviare comunque contenuti e informazioni utili si rivelerà prezioso quando l’economia ripartirà.

 

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I marketer "ignorano" i social media [?] (Social Misunderstanding Blues)


Sembra quasi fatta apposta la segnalazione che mi giunge dall‘amico Pierluca dell’articolo di Brandrepublic dal titolo inequivocabile : “Marketers ignorant of how social media works. “

Mi pare la perfetta prosecuzione del discorso iniziato nel post precedente a proposito di “monologhi aziendali” via social media.

Una survey promossa da McCann Erickson Bristol in Inghiliterra tra “marketing experts,” ha rivelato (ma forse ce ne eravamo anche già accorti…) che due terzi dei suddetti marketer ammette di non comprendere i social media, nonostante riconoscano la necessità di utilizzarli.

In ogni caso l’86% dei nostri esperti di marketing ritiene che i social media siano più di una semplice mania del momento, anche se il 65% conferma di non sapere in realtà come utilizzarli efficacemente in una campagna di marketing.

Non stupisce (perchè ho verificato qualche esempio anche da noi) il fatto che la maggior parte di loro abbia una presenza su Facebook, Twitter o Linkedin : evidentemente si iscrivono (per puro e necessario presenzialismo) fanno due cose ( magari nemmeno quelle) poi spariscono, senza utilizzarlo per poter capire. Salvo poi tenere presentazioni e conferenze in merito…

Care aziende, diffidate di chi vi vuol portare sui social media senza esserne realmente parte e quindi senza averne potuto comprenderne realmente l’ecosistema, la natura delle relazioni e così via.

E’ più pericoloso entrarci come un elefante ubriaco in un negozio di porcellane che starne fuori.

(illustrazione di James Marsh)

P.S. a proposito di clamorosi errori nell’approcciare il social web, gustatevi questo esempio.

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Monologhi 2.0 (Social Media Conversations Blues)

Nel quasi mitico post di Brian Solis “Social Media Manifesto”, scritto nel Giugno del 2007, un classico nel suo genere, da rileggere e commentare ad libitum, c’è una affermazione (tra le molte) che merita una breve a attuale riflessione.

Dice il Nostro: “Monologue has given way to dialog.”

Sembra quasi una affermazione banale, visto che si tratta, appunto, di social media, la sede naturale delle conversazioni online.

Eppure, a ben guardare, la presenza delle aziende non sembra ancora aver colto nel segno.

Mi pare che siano in molti ad aver continuato i propri monologhi (a senso unico) operando semplicemente un cambio di “media”, da televisione e giornali a facebook, blog o twitter. (quelli che ci sono arrivati, perché di banner se ne vedono in giro ancora parecchi…)

Altri pareri ?

(immagine: Dialogue, di Doc Ross)

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8 (+ 1) classici errori dell’ufficio stampa (PR Mistakes Blues)

mistake-bridge Una interessante lista di errori comuni commessi dagli uffici stampa (interni all’azienda come dalle agenzie) ci è offerto da Becky Sheetz-Runkle su Examiner.com.

Sottolineo che questi suggerimenti provengono da un panel di giornalisti.

Vale la pena di scorrerli assieme, partendo da quelli più significativi per lo scenario locale:

1. Non leggere con una certa assiduità le testate cui vengono inviati comunicati stampa e che vengono invitate per interviste e press briefing. E’ davvero frustrante per il giornalista ricevere comunicati o proposte che sono totalmente fuori dei loro attuali interessi.

2. Inviare troppi comunicati. Non tutto quello che accade in azienda ha valore per i media.  Inviare comunicati privi di contenuti assicura la “cestinatura” automatica dei prossimi che verranno inviati, inclusi magari alcuni che avrebbero invece meritato attenzione.

3. Inviare comunicati che hanno un orizzonte totalmente “interno” all’azienda e che mancano di qualsiasi prospettiva o visione relativa agli scenari “esterni” in cui l’azienda si muove.

4. Inviare più volte lo stesso comunicato. Inutile e fastidioso, rafforza la decisione del giornalista di ignorare la comunicazione.

5. Non essere in grado di mettere in contatto il giornalista con una fonte interna aziendale per un approfondimento entro 48, massimo 72 ore dall’emissione del comunicato. Un giornalista del panel di Examiner segnala che un problema di questo tipo influenza la sua disponibilità futura a parlare di quella azienda.

6. “Dimenticarsi” di chiedere al giornalista, quando lo si chiama,  se è il momento opportuno per parlargli e se ha il tempo per farlo ( sembra banale, ma evidentemente non lo è…)

7. Dichiarare che una notizia è sotto embargo e poi farla pubblicare a un altro…

8. Le voice-mail sono morte. 

Aggiungo un errore che molti giornalisti italiani mi hanno segnalato, ovvero lunghissimi tempi di reazione quando vengono richiesti materiali aggiuntivi di approfondimento o immagini. Personalmente in agenzia solitamente predispongo un repository online dove i giornalisti possono scaricare ciò che ritengono utile, senza tempi di attesa e senza intasare le loro email.

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Twitter account for sale ? (Social Business Blues)

La notizia che nientepocodimenoche la CNN si sia mossa per “acquisire” l’account Twitter dedicato alle breaking news del popolare network televisivo, è una di quelle che fanno riflettere.

Perchè CNN non possedeva l’account in questione,  cnnbrk , che è gestito invece da James Cox, ( il cui twitter account personale è qui ).

L’account di cnnbrk conta la bellezza di 957.734 followers (in rapida crescita).  

CNN di fronte ai portentosi numeri generati da Cox, ha ritenuto necessario prendere il controllo dell’account in questione.

CNN però non parla di acquisizione, perché la formula trovata è stata quella di assumere Cox come consulente esterno, e nel rapporto di consulenza è opportunamente compresa la gestione dell’account, nonché workshop sui social media da erogare ai dipendenti di CNN.

Oltre all’indubbio valore simbolico della notizia in se’, vi è anche un particolare quesito circa la legittimità dell’operazione, perché al di là delle definizioni dell’operazione, la cessione di un account contro denaro sembra sia contro le regole fissate da Twitter

Staremo a vedere.

Fonte: Washington Post via Adam Coomes 

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Tutto quello che avrei voluto sapere sull’advertising e non ho mai osato chiedere. (Me lo ha detto Giorgio Brenna…)

Quando mi è giunto il gentile invito di Anna, di Hagakure, qualche dubbio l’ho avuto.

Perchè il fatto di essere invitato a un incontro il cui argomento principale è l’ultima campagna pubblicitaria di Tampax (potete vederla in anteprima qui), diciamocelo, qualche remora me l’ha creata.

“Che c’entrerà mai il sottoscritto con la pubblicità di un assorbente interno ?” Mah…

Poi però la curiosità ha prevalso. Ed è stato un bene.

Incontrare una persona come Giorgio Brenna, Amministratore Delegato di ARC Leo Burnett, (l’agenzia autrice della campagna in questione ) è stato utile, istruttivo, stimolante.

Ma andiamo con ordine.

Prima di tutto la campagna. “Chapeau” alla squadra di Leo Burnett per aver saputo portare un’azienda come Procter & Gamble a una comunicazione (globale) così “di rottura” su un brand come Tampax. Pur non essendo “in target” (e nemmeno un esperto di pubblicità) lo spot che ho visionato su YouTube mi ha ispirato simpatia, per l’approccio fortemente ironico, un po’ “acido” e decisamente innovativo per una product category piuttosto “imbalsamata”sotto questo profilo.

L’idea di questa “Mother Nature” rende onore alla filosofia di Mr. Leo Burnett, che vedeva nella parola “change” il senso del proprio mestiere.

Ma il cambiamento, l’innovazione, non è solo nella campagna in se’. Perchè, contro molte consuetudini, c’è anche la preview su YouTube, e c’è la pagina su Facebook.

E qui arriviamo alla mia chiacchierata con Brenna. Chiacchierata che naturalmente (per colpa mia) si è subito concentrata sul rapporto tra comunicazione delle aziende e i media digitali.

Il quadro che Giorgio mi ha offerto mi è parso molto lucido e, ahimé, piuttosto desolante.

Le aziende, soprattutto quelle grandi, vedono ancora tutto quello che c’è sul web (dai siti ai blog, ai social media) come qualcosa di ancora molto borderline, per giovani assatanati di computer, e, soprattutto, non vedono assolutamente il potenziale di interazione del web, che viene invece considerato un media nel senso più “povero ” e restritivo del termine; tanto e vero che in fase di pianificazione delle attività , è il mezzo residuale su cui si investe quello che è avanzato dopo TV, carta, radio e eventi, per comprare banner (incredibile, ancora loro…) e se va bene, parole per la ricerca online.

Insomma, tranne poche e peraltro clamorose eccezioni (Nike per esempio) la distanza culturale tra marketer e i cosiddetti “new media” è ancora notevole.

Ma altrettanto interessanti mi sono parse le sue considerazioni sulle agenzie di pubblicità in generale.

In modo del tutto analogo a quelle di PR, anche le agenzie di pubblicità hanno bisogno di rivedere profondamente i propri modelli di business. Non solo sotto l’aspetto puramente economico ma anche, e soprattutto, sotto l’aspetto dell’utilizzo delle risorse e dei processi di produzione / erogazione dei servizi.

E sotto questo aspetto Brenna si augura, giustamente, che la crisi attuale contribuisca a forzare questo rinnovamento, premiando coloro che questa necessità l’hanno compresa (e non da oggi).

Siamo in due caro Giorgio, siamo (almeno) in due.

Un doveroso saluto ai colleghi blogger Flavia Brevi e Sara Carpinello e Davide Colombo, i ragazzi di “Don’t worry, be creative” che hanno giè scritto QUI e QUI

E nuovamente grazie a Giorgio Brenna per la sua disponibilità.

P.S. C’è una frase di Leo Burnett (morto nel 1971) che dovrebbe essere oggi scritta sui muri delle aziende che si affacciano nei social media: “What helps people, helps business.”

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PR 0.5 (Back to Basics Blues)

E mentre noi, qui, ci si diletta a parlare delle magnifiche e progressive sorti delle PR 2.0, 3.0 , di social media, di conversazioni e via dicendo, ci tocca leggere notizie desolanti e regressive come quella che su MLIST ci sottopone Alessandro Ghezzer.

L’intervento si intitola “Il flagello dei comunicati stampa”e ne riporto un lungo stralcio:

“Gestisco un portale turistico che riceve, quasi quotidianamente, comunicati stampa della più disparata natura. Spesso rimango allibito nel constatare il pressapochismo, la sciatteria, se non l’incapacità, di chi manda comunicati. I problemi riguardano forma e sostanza. Forma: c’è chi ti manda il comunicato in allegato word o pdf, e già questo fa incazzare. Alcuni non mettono neppure l’oggetto nella mail (!), confidando che chi riceve queste mail moleste apra gli allegati alla cieca. Altri ficcano tutti gli indirizzi nel “cc”, così si vedono tutti gli altri destinatari, magari centinaia. Questo tipo di messaggi, per quel che mi riguarda, finiscono direttamente nel cestino. A volte nella mail ci sono allegati di vari mega (brochere aziendali o depliant in pdf), altre volte il solo logo aziendale (e chi se ne frega).
Non di rado arriva una spataffiata di fotografie ad altissima risoluzione, che per la pubblicazione sul web servono solo a farti imbufalire per l’intasamento della posta. Le foto, beninteso, sono sempre rigorosamente senza didascalia, di modo che non c’è verso di capire a cosa si riferiscano: magari il mittente ha la pretesa che si telefoni per chiedere che cos’è DSC_008756. Certi mandano comunicati di pagine e pagine, magari con altri 6 o 7 allegati in doc “per spiegare meglio”. Come se si avesse tempo, e voglia, di leggere pagine di documenti per capire cosa diavolo vogliono costoro.

Veniamo alla sostanza: ci sono comunicati scritti in modo sgangherato, zeppi di patetici inglesismi (mission, input, work in progress, know how, road map), frasi fatte e luoghi comuni (porre in essere, senza soluzione di continuità, immerso nel verde, natura incontaminata, benessere a 360 gradi) che di regola cestino dopo aver letto poche righe. In altri non si capisce proprio il senso: concetti vaghi, esposti alla rinfusa, a volte in contraddizione tra loro.

Mancano anche informazioni essenziali come chi, quando, dove, come e perché. L’unica cosa che si capisce chiaramente è la confusione mentale di chi ha scritto il comunicato.“

I commenti sono superflui.

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To Twit, or not to Twit ? (Social Business Amlet Blues)


Diciamocelo, solo Twitter può competere con Facebook quanto a discussioni e analisi in corso.

Da un lato chi si interessa più direttamente agli aspetti sociali e psicologici del fenomeno, da un altro chi, come gli addetti alla comunicazione, si domanda fondamentalmente se esistono reali possibilità per utilizzare in modo coerente ed efficace un mezzo del genere.

Perchè mentre, in un certo senso, Facebook offre tutto sommato varie opzioni di comunicazione e promozione (ammesso poi che vengano percorse correttamente), le caratteristiche di Twitter sono così specifiche e peculiari che il suo utilizzo nell’ambito di un piano di comunicazione apre, giustamente, alcuni interrogativi.

Credo sia corretto seguire un’approccio come quello proposto da Traci Knoppe su Genesis Blogging

Prima di tutto ricordiamoci che i vostri "follower" e coloro che decidete di seguire sono persone, non numeri. Può sembrare una osservazione banale, ma in realtà ha una serie importante di conseguenze sull’approccio a un "ambiente" come quello di Twitter.

Vi sono, semplificando, due grandi "scuole di pensiero" circa il comportamento da seguire :

1. Dovete seguire chiunque vi segua, sia attraverso meccanismi automatici, sia manualmente

2. Dovete seguire solo coloro che ritenete siano adatti e in qualche modo "congruenti" con voi, sia per un interesse comune, sia perchè vi siano stati segnalati, oppure perchè appartengono al vostro mercato di riferimento.

Se vediamo il tutto dal punto di vista di chi vorrebbe comunicare, promuovere, posizionare un brand o un prodotto, trovare clienti o conversare con i propri clienti, occorre trovare un approccio che rispetti la natura dell’ "ambiente sociale Twitter" .

E qui veniamo al "Know – Like – Trust factor"

Ovvero, seguendo il filo logico proposto da Traci:

  • Your followers need to get to know who you are. They do that by you tweeting a bit about yourself.
  • They need to get a chance to like you. They can do that when you reply to others and engage them in conversation.
  • Trust comes from the Knowing and Liking and seeing that you are willing to think of other people and not just yourself and your business.

Tina Williams ( Coaching The KLT Factor ) sottolinea acutamente:

The more light you spread the more your KLT Factor develops. As you light up others, you will see that instead of seeing your light dim, the circle of light around you just keeps getting brighter!

La ricerca, la selezione e l’apertura dei contatti è sicuramente un passo importante e complesso, e qui non mi dilungo, ma mi limito a segnalare strumenti come Twellow

Mi soffermo ancora invece sulle modalità e sui contenuti di comunicazione:

  • Tweet some personable, as well as valuable, information so your followers can get to Know you.
  • They will Like you when you interact and become social: so reply, re-tweet and interact with your followers and those you’re following.
  • Once they know and like you, and you have interacted, the Trust naturally comes.

Insomma, mi pare che la chiave sia un approccio realmente equilibrato tra interazione sociale e obbiettivi di promozione. Vorrei concludere queste brevi ( e non certo esaustive) osservazioni sottolineando che, come per il blogging, restano fondamentali l’aspetto della trasparenza e quello dell’essere comunque "persona" : " If you are tweeting as a business or corporation – you need a person, with a name, tweeting on your behalf. Personalize your Twitter presence and you will get a much more favorable response. You will build your Know-Like-Trust factor and your business will grow. Twitter is an excellent marketing tool – if used properly, the results are amazing. "

Illustrazione di James Marsh

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Letture del Lunedì (Social Media PR Blues)


Allora, oggi il menù prevede Social Media in varie salse:

Social Networking More Popular Than Email (Mashable)

HOW TO: Measure Online Influence (Mashable)

6 Social Media “No-Brainers” You Shouldn’t Forget
(CapeCodSEO)

Buona lettura e buona settimana.

 

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Social Media e business (Twitter Blues)

Vi segnalo questo interessante post di Sarah Milstein su un tema molto poco dibattuto ma in realtà molto sentito dalle aziende che si affacciano sui social media. Qui il post.

Ve ne anticipo uno stralcio: 

Back in December, Dell reported that offers from its Dell Outlet Twitter account had led to more than $1 million in revenue. A small percentage for a company that books $16B in revenue annually–but a nice number nonetheless, particularly in a dreary economy.

Question is: are they the only ones?

I haven’t yet found anyone else claiming to have micromessaged their way to a number with six zeroes. But I did have an interesting conversation recently with a company that used Twitter to drive a 20 percent increase in sales in December, and additional growth in February. Here’s the story. (…)

Via Digital Engage on Twitter

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