Sono un blogger degenere (Bad Father Blues)


Tutto preso dal cambiamento di format, mi sono scordato (cose da pazzi) del compleanno della mia creatura, che il 18 Febbraio ha compiuto 4 anni ….

Potrà mai il mio piccolo blog perdonare il suo indegno genitore ??

Mah…

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Nobody gets fired for buying IBM (PR Price and Value Blues)

Un provocatorio e appassionato post pubblicato  in A view on PR from Silicon Valley di Tim Dyson, merita più (molto di più )di una riflessione.

Tim osserva come la vecchia espressione “nessuno è mai stato licenziato per aver scelto IBM” sembra più che mai in auge in queste settimane.

Molte grandi aziende rivedono i propri programmi di marketing e comunicazione e mettono in discussione i propri partner e fornitori .

Il problema è che spesso i criteri di selezione non sembrano essere basati su quali idee e proposte faranno la differenza per il loro business, o dove sono i consulenti più adatti e competenti per lavorare nel mercato in cui operano, per tipologia di prodotto e nello specifico Paese. I criteri sembrano invece orientati alla mera dimensione e al "prezzo apparente” 

In realtà le aziende hanno soprattutto bisogno di persone creative, competenti e attente a quello che succede nel mondo dei media vecchi e nuovi, che, come sottolinea Tim, “ love to get their hands dirty. In short they need results”

Ma i meccanismi imperanti sembrano essere diversi.

Accade che molti uffici acquisti amano i contratti globali con le grandi agenzie: vedono soprattutto i vantaggi (apparenti) della centralizzazione. Al tempo stesso, ovviamente, le grandi agenzie “vendono” l’idea di una “ottimizzazione dei costi”  e di una “miglior integrazione”

Conclude (amaramente) Tim:

”Smaller, more agile agencies are full of practitioners that love the craft of PR and will give their all to the task, not just the hours they are obliged to provide within the contract.
Small and mid-sized agencies will likely suffer during the next twelve months as some large companies run for the apparent safety blanket offered by large agencies. In time they will learn what they learned in better economic times – that they need an agency, or agencies that can really engage with their different business units and can make a real difference to their success. Sadly it seems that for now though the smaller agencies will have to sit tight and focus on smaller clients that understand the difference between price and value.”

O no…?

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La comunicazione di questi tempi (Banner Blues)

“…Banner ads have a notoriously low ROI. They are good branding vehicles but terrible for direct response and they require a significant investment to really be successful. You need to blanket the web with them. I’m inclined to believe that as marketers look for ROI in these times they will find success through search ads, public relations, email marketing and some, but not all, social networking programs.”

Questa osservazione del buon Steve Rubel mi pare ineccepibile, e particolarmente significativa di questi tempi.

Se è vero che il “famigerato” ROI è quanto mai il fattore chiave delle decisioni aziendali, qualche rilflessione su come si spendono i budget di comunicazione mi pare d’obbligo.

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Sito o corporate blog: oggi è un falso problema (A False Dilemma Blues)

Si sono versati fiumi di pixel su ruoli e rapporti tra blog e sito aziendale. Ne abbiamo parlato spesso anche da queste parti.

Recenti esperienze in agenzia mi hanno portato a fare alcune considerazioni che, a mio parere, sciolgono più di un dilemma in merito.

Fermo restando che il blog conversazionale in senso stretto resta un formidabile strumento “tattico” in funzione di particolari obbiettivi aziendali (il lancio di un prodotto o di un servizio, il dibattito su un tema particolarmente delicato per il business, etc. ) oggi per numerose aziende il dilemma “blog o sito” è di fatto ampiamente superato.

Mi spiego meglio.

L’esistenza di piattaforme di pubblicazione e gestione dei contenuti particolarmente potenti e flessibili, come ad esempio WordPress, offre di fatto la possibilità di mettere mano ad un immaginario “cursore lineare”. Agli estremi di questo cursore troviamo da una parte il blog conversazionale puro (“alla Mantellini” tanto per capirci) e all’altro estremo qualcosa che potremmo definire “sito aziendale dinamico”, dove utilizzando le modalità di pubblicazione del blog, l’azienda offre un flusso di contenuti, articoli di approfondimento e informazioni di valore per il pubblico di riferimento (tipicamente partner e clienti finali), ma contemporanemente pubblica anche informazioni strettamente tecnico-commerciali (nuovi prodotti disponibili, promozioni, eventi, listini), utilizzando quindi la presenza online per spingere in modo anche molto diretto e immediato il business dell’azienda.

La possibilità di creare anche ulteriori pagine statiche o parzialmente dinamiche, permette di coprire esigenze di tipo istituzionale, come ad esempio profilo, storia, rendere disponibili documenti di base come condizioni commerciali e finanziarie, etc.

Credo sia chiaro che di fatto si può andare da un’estremo all’altro senza soluzione di continuità, calibrando cioè le caratteristiche e la struttura in funzione degli obbiettivi e delle funzionalità prefisse.

Fatto salvo il caso in cui le esigenze siano decisamente troppo complesse per questo tipo di gestione, come la necessità di fornire anche l’assistenza online, gestire moduli di e-commerce molto complessi e così via, questa modalità di pubblicazione costituisce per molte aziende un formidabile strumento di comunicazione e di business, accessibile tra l’altro a costi davvero contenuti.

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Scava scava, trovi l’azienda (Digging in the Company Blues)


Come dicevo poco tempo fa ad un amico su Facebook, capita all’agenzia di PR di trovarsi ad avere a che fare con aziende che sembrano affette da una strana e pericolosa "timidezza".

Mentre da un lato ci sono clienti che vi riversano addosso una quantità inconcepibile di informazioni irrilevanti e inutili, tra le quali bisogna scavare per trovare un contenuto degno di questo nome, all’estremo opposto ci sono aziende che sembrano inconsapevoli dell’ enorme valore delle competenze e dei contenuti di cui dispongono e, a parte poche notiziole di servizio, non passano all’agenzia quanto dovrebbero.

Occorre un’attività investigativa degna di Sherlock Holmes, qualche giorno dedicato a incontri col maggior numero possibile di manager e poi si fanno scoperte a volte sensazionali: dalla tecnologia praticamente unica nel mercato, alla case history sensazionale (".. ah sì, poi in effetti abbiamo venduto anche qualcosa a Fiat, mi pare…") e via dicendo.

Insomma, ritengo che quando si affronta un nuovo cliente occorra armarsi di pazienza e dedicarsi con impegno ad uno "zero based profiling": spesso si tratta di una attività premiante, che porta a risultati del tutto inaspettati, con enormi vantaggi per l’azienda e per l’agenzia.

A margine di queste osservazioni mi piace ricordare il caso limite di una azienda che era così poco consapevole del proprio potenziale in termini di comunicazione, che pagava una (encomiabile) agenzia di PR per farsi spiegare che siccome i loro contenuti erano un po’ difficili per il mercato, non ci si poteva aspettare un granchè come risultati… (era un’azienda che proponeva una delle prime soluzioni di virtualizzazione quando ancora non ne parlava quasi nessuno…)

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Auguri….

Per un Natale sereno e un 2009 molto migliore di come ve lo immaginate….

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Quello che le agenzie di PR fanno e dovrebbero davvero smettere di fare.(Fool PR Blues)

La storia che il giornalista Fabio Zambelli mi ha inviato (come a molte altre agenzie suppongo) è davvero interessante e contiene alcune osservazioni che meritano un commento.

Le vicissitudini narrate dall’editorialista di TechCrunch Michael Arrington in questo post devono indurre le agenzie, ma soprattutto le aziende, a riflettere sul proprio modo di comunicare e più in generale sul proprio ruolo.

Sentite cosa ci racconta Michael e come descrive l’attività delle agenzie di PR:

"Gone are the days of polite pitches and actual relationship building. Today, PR firms email a story to us as many as 20 times, and call every TechCrunch writer on their cell phones repeatedly. If we say we won’t write a story (which is most of the time), things often turn nasty (check out Lois Whitman at HWH PR/New Media for a fine example). For the most part we’ve dealt with the problem quietly over the last couple of years, other than the occasional lashing out on Twitter. Others, like Wired Magazine’s Editor In Chief Chris Anderson, have been more public with their frustration."

Ecco, leggendo queste poche righe, si comprende al volo la pessima immagine di cui godono le agenzie di PR presso i media e lo scarso valore attribuito dalle aziende all’attività di PR.

Perchè è ovvio che chi lavora in quel modo non raccoglie risultati e le aziende, giustamente, non possono certo ritenere l’attività di relazioni pubbliche un elemento strategico e efficace della propria attività di marketing e comunicazione.

Cosa che invece può e deve essere, ma che richiede ovviamente che l’agenzia possegga competenze e conoscenze sia in riferimento al settore ove l’azienda opera, sia di carattere professionale (da come si scrive un comunicato sino all’utilizzo efficace delle nuove tecnologie di comunicazione).

L’immagine che emerge da quelle poche righe è invece quella di un branco di "passacarte" che dedica la maggior parte del proprio tempo a massacrare di recall i giornalisti. I quali, quando ricevono "contenuti", magari anche contenuti interessanti e ben predisposti, non hanno assolutamente bisogno di essere richiamati. Pubblicano. Ripeto, pubblicano.

Gli ultimi tre articoli (ho detto articoli e non poche righe di news) che sono stati pubblicati per un cliente hanno richiesto due o tre email ciascuno e nessun recall. E non sto scherzando.

Quello che Michael chiama "actual relationship building" è esattamente questo. Si fornisce "valore" al giornalista e si riceve in cambio attenzione per i contenuti che le aziende vogliono tramettere.

Spesso ci è capitato di presentare l’agenzia a manager che trovandosi di fronte qualcuno che gli raccontava come pensava di costruire contenuti di valore per la loro azienda e come veicolarli, mostravano più che altro disorientamento, e si dimostravano particolarmente preoccupati del fatto che non abbiamo una schiera di giovani junior account cui far fare i recall e non disponiamo di prestigiosi uffici di rappresentanza.

Ecco, appunto.

AGGIORNAMENTO: il post del Mante.

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La Macchina del Tempo (Facebook Big Chill Blues)

Credo che l’  “effetto collaterale” più clamoroso del successo di Facebook sia l’ubriacatura collettiva di vecchi compagni di scuola, amici perduti, ex-colleghi.

Nei server di Facebook si accumulano terabyte di immagini di scolaresche di ogni epoca, digitalizzazioni più o meno ingiallite di professori dimenticati, squadre di calcio oratoriali, gite scolastiche.

Implacabile, il passato bussa al nostro computer.

Intendiamoci, a volte è una vera gioia, ma forse, talvolta,  può essere quasi imbarazzante.

Mi raccontava qualcuno: ” Sai, quando mi arrivano certe richieste di amicizia, vorrei rispondergli: ma se non ti ho cercato negli ultimi 20 anni , ci sarà un motivo, o no?” 

E cosa dire di 20 o 30 anni della nostra vita raccontati in qualche centinaio di battute dentro una chat ?

Ma Facebook è anche una macchina per il futuro.

Attraverso i contatti dei nostri contatti, attraverso passioni e interessi comuni facciamo nuove conoscenze, forse addirittura nuove amicizie, che potrebbero diventare rilevanti per il nostro futuro.

Concludo, azzardando l’ipotesi che dietro Facebook ci sia una potente intelligenza artificiale.

Qui sotto il banner che mi ha proposto oggi nella mia homepage:

Chapeau.

 

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Questione di ruoli (Site & Blog Blues)


L’ineffabile Minimarketing propone uno schema molto stimolante sugli strumenti di interrelazione aziendali 1999-2009.

Vorrei solo aggiungere un’ipotesi alla domanda che Gianluca si pone alla fine :

"Il dubbio è: fino a quando servirà un sito scollegato dalla conversazione in corso? E perché continuare a usare i social media per portare traffico al proprio sito quando le persone vogliono rimanere nelle zone sociali della rete?"

Forse la risposta è che le aziende potrebbero assegnare a blog e sito ruoli diversi e complementari, nel senso che il blog è la sede dinamica delle conversazioni e dei commenti, il sito il repository di contenuti a medio-lungo termine, documenti, approfondimenti, informazioni istituzionali, etc.

 

 

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Ancora su Facebook (Social Advertising Blues)

Vi consiglio così, al volo, una stimolante lettura dal blog di Mauro Lupi: questo post e i relativi commenti. Ci sono pareri e riflessioni molto interessanti sul rapporto tra social media e aziende e sul "se" e "come" le aziende possano entrarci (o meno) per scopi commerciali.
Buona lettura.

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