I am a…

Finalmente qualcuno ha compreso che genere di blogger sono…

 

What Kind of Blogger Are You?

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Contributi eccellenti (New Marketing Blues)

Giusto in tempo per la chiacchierata di domani sera, ecco i signori di Forrester a darci qualche numero e un’osservazione davvero interessante:

 

“Interactive marketing spending in the US will more than triple over the next five years, reaching $61 billion by 2012, according to a new Forrester Research, Inc. report released today at the Forrester Consumer Forum 2007 in Chicago. Forrester expects that a maturing perspective about interactive channels coupled with technology advances will eventually lead to interactive technologies infusing all marketing efforts, and the interactive marketing organization will dissolve. “As firms continue to make customer centricity a higher priority, they will recognize that maintaining separate marketing teams to manage different sets of channels that all target the same customers makes no sense,” said Forrester Research Principal Analyst Shar VanBoskirk. “Over the next five years, we see interactive technologies gradually infiltrating all media — including such traditional paragons as television, billboards, and direct mail — and the concept of a separate interactive marketing organization will disappear.”

 

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Blogosphere Added Value (Sharing Blues)

Eh sì, queste sono le cose che amo della blogosfera.

Un bel giorno faccio un commento da Mizioblog, poi su Doublebblog e poi decido di farne un post (quello qui sotto). E allora Minimarketing ne fa uno suo… e così nasce un bellissimo dibattito, ampio, ricco, variegato, una miniera incredibile di competenze, pareri, stimoli, riflessioni…

Se qualcuno non avesse ancora capito cos’è la blogosfera, questa mi sembra una buona occasione per cominciare a comprenderla.

Qui l’ultimo contributo di Mizioblog (ma ce ne sono in giro davvero parecchi …)

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User Generated …what ? (UGC Blues)

Lo “user generated content” è l’argomento del giorno su molti blog. Se ne discute, tanto per fare un esempio, qui, qui, e qui.

Ho la sensazione , sempre più forte, che andrebbero tenuti separati, in sede di analisi, i contenuti spontanei da quelli richiesti e/o stimolati direttamente dalla aziende nell’ambito delle proprie attività di marketing.

Vorrei subito chiarire che in questa distinzione non c’è nessuna classificazione “qualitativa”, nel senso che una categoria non è “migliore” o “più degna” dell’altra, ma mi pare comunque necessario distinguerle.

Estremizzando un po’ il discorso, chiamarli allo stesso modo sarebbe un po’ come mettere sullo stesso piano una pagina pubblicitaria e la recensione spontanea di un prodotto.

Ora, la mia “provocazione” (che ho esplicitato in alcuni commenti) ha suscitato qualche prima contro-analisi come quella di Mizioblog:

“Rispetto il tuo punto di vista, Enrico. Il tuo è un ragionamento da “puro”. Ma è la stessa problematica che si sta incontrando nel virale. I veri contenuti virali, quelli puri cioè, si diffondono spontanemamente, il più delle volte a prescindere anche dalla volontà dell’azienda, ma se del virale si vuole fare una professione bisogna trovare anche un modo per veicolare contenuti un po’ meno “viralli”. Mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensano gli amici ninja a proposito, perché la campagna “mettici la faccia” è loro, ma anche perché sono anche degli esperti del virale.”

Il dibattito si fa interessante.

(@ Mizioblog: non è che per “puro” intendevi “bacchettone”, eh ?)

Immagine di James Marsh

Aggiornamento dai blog, i commenti di Mr. White (Doubleblog):

@enrico la proposta è corretta nei termini, ma credo non ci porti molto lontani… ovvero, quanti sono i contenuti veramente spontanei e prodotti liberamente dagli utenti oggi? E come fare a decifrarli veramente? solo nel caso in cui non siano affatto brandizzati o con qualche allusione di mktg, potremmo pensare che siano free.
La mia impressione è che lo stimolo da parte dei brand faccia parte del gioco. Potremmo discutere sulle regole d’ingaggio di queste ultime, ma è tema per un altro discorso…

AGGIONAMENTO DELL’11 OTTOBRE : la discussione si amplia qui,

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Marketing 2.0

Sito Dilbert

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Non ci sono dubbi, Sony sa che siamo agrumi. (Arrogance Blues)

Beh, che dire, ci sono aziende che sono una certezza, una fonte inesauribile di pessimi esempi di cultura aziendale.

Lo dicevo a Febbraio di quest’anno , e ne avevo scritto in precedenza ( qui e qui ad esempio). Ma al peggio non c’è mai fine. Scorrendo stamattina la newsletter di ZeusNews ecco che l’occhio mi cade su questa notizia.

In sostanza i nostri ineffabili ci spiegano che se io compro un CD o scarico legalmente un brano, quando ne faccio un MP3 per ascoltarlo sul mio lettore portatile o ne faccio una copia di backup, sto rubando il pane di bocca ai quei poveretti della Sony.

Sì, avete capito bene. Siete dei vergognosi ladri, dei disonesti. Ci avverte Jennifer Pariser, avvocato di Sony BMG:

“Quando un individuo fa una copia di una canzone per sé stesso, suppongo che possiamo dire che egli abbia rubato una canzone. Fare una copia di una canzone comprata è solo un modo carino per dire rubare solo una copia.

Avete compreso ? Allora, se voi comprate regolarmente un CD , ne fate una copia di back up e li convertite in MP3 siete ladri due volte ! Secondo Sony, se foste delle personcine veramente a modo e corrette, dovreste correre in banca e fare subito un bonifico alla Sony BMG e ripagare le vostre canzoni tante volte quante le avete copiate.

Volevate fare i furbetti eh ? Pensavate di farla franca ? Vergogna vergogna vergogna ! Tentare di rapinare così un’azienda che fa così tanto per voi e per le vostre orecchie. Maledetti ingrati !

Meno male che in questi tempi bui c’è chi ci illumina ricordandoci cosa sono l’onestà e la correttezza, che ci fa capire cos’è un rapporto serio ed equilibrato tra un’azienda e i suoi clienti.

Grazie grazie, spremeteci, spremeteci, fino in fondo, che ci piace tanto.

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Tecnologie e PR (Web 2.0 Blues)

In un interessante documento (che potete scaricare qui) scritto da John V. Pavlik  e pubblicato anche dall’ Institute of Public Relations , viene analizzato l’impatto delle tecnologie sul modo di gestire le Relazioni Pubbliche. Una lettura che vi consiglio.

Vorrei solo soffermarmi brevemente su alcune considerazioni svolte da Pavlik e che trovo molto simili a quelle che ho avuto modo di esporre in altri post e commenti circa il significato dei cosiddetti “social media” , delle nuove tecnologie e le loro conseguenze sul piano dei cambiamenti culturali necessari per utilizzarli in modo compiuto ed efficace.

C’è una differenza sostanziale tra le tecnologie che semplicemente modificano o migliorano  canali di comunicazione esistenti e quelle che invece portano una trasformazione profonda del modo di fare comunicazione, in modo sostanziale  e non tecnologico-formale.

Mandare un comunicato via email anzichè per fax appartiene alla prima categoria, il blog del CEO (aperto ai commenti e aggiornato con continuità) appartiene alla seconda.

Aggiungerei anche che è possibile , come più volte ho sottolineato, aprire un corporate blog restando però contemporaneamente  ancorati a una cultura della comunicazione arretrata e tutt’altro che conversazionale.

“The new media, Web 2.0, is disrupting everything,” ammonisce Peter Debreceny, Chair of the Institute for Public Relations Board of Trustees - ”Web 2.0 is not just adding to the communication mix. “It requires a completely new way of thinking.”

Una ricerca di van der Merwe, Pitt, Abratt, e Russell del 2005 sottolineava: “Stakeholders can now communicate with each other about an organization in a very public way. The public relations function will in most cases be the department dealing with these unplanned messages. As stakeholder strength increases, PR practitioners will have to develop strategies that deal with the rising power of different stakeholders on the Web.”

Gary Goldstein ha efficacemente sottolineato come Internet abbia introdotto tre elementi rivoluzionari nei processi di comunicazione: il primo è stato la pubblicazione in versione elettronico di news e contenuti disponibili su carta o trasmessi via TV e radio; il secondo è stato la disponibilità online di grandi risorse di informazione come i database di letteratura scientifica. Il terzo sono stati i blog, dove individui privati utilizzano le notizie come basi su cui sviluppare commenti, analisi e confronti di opinioni con i propri lettori.  

Come sintetizza bene Pavlik “Web 1.0 meant better pathways to sending information to publics, editorially based, and right up our alley. Those in PR did a very good job in 1994-2004 in taking advantage of the opportunities the Web offered. Web 2.0 is different because it’s not just a technological enabler of existing methodologies.”

Francamente mi sembra che questi messaggi non siano giunti alla maggior parte delle aziende, che continuano a rivolgersi a strumenti  etichettati (a volte a sproposito) web 2.0 senza una precisa percezione del loro significato.

Immagine di James Marsh

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PR & Marketing (Client Blues)




Sito Dilbert

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Quella strategia pesa 12 metri. (Measurable PR Blues)


“Essere citati dai giornali nazionali equivale a uno spazio pubblicitario del costo di € 13.000″ (ricerca Xyzk Commuunication)”

Questa notevole affermazione (che credo faccia riferimento a una base annua) non la fa uno capitato per caso nel mondo della comunicazione.

La fa una pregiata ditta che si propone sul mercato come esperta in comunicazione d’azienda, al punto di erogare “corsi di formazione” sull’argomento. E che, incidentalmente, ci spiega via email che con un softwerino da 290 euro, (costava 1.200, ma c’è lo scontone, come i materassi in TV, tranquilli) l’ufficio stampa professionale e costantemente aggiornato te lo puoi tranquillamente fare in casa.

Lasciamo perdere, almeno per ora, il softwerino.

Io, come molti altri , ho sempre sostenuto che le aziende devono effettuare una qualche misurazione dei risultati della propria attività di relazioni pubbliche e di ufficio stampa in particolare. Sulla misurabilità esistono molte teorie e pareri e i criteri possono essere diversi, dai più semplici ai più sofisticati. L’importante è che il criterio prescelto abbia un senso in relazione alla tipologia di attività svolta e al target di riferimento del business aziendale. E’ evidente che ci sono aziende per le quali ha molto più valore un articolo su una rivista specializzata che tira 15.000 copie, piuttosto che una notizia sul Corriere della Sera. Si deve trattare comunque di un criterio che ha, evidentemente, una dimensione quantitativa e una qualitativa. Questo in generale e senza scendere in dettagalio sulle possibili alternative; ce ne sono parecchie, ripeto.

Ma stupidaggini come quelle riportate all’inizio meritano qualche riflessione.

Prima di tutto misurare e “valorizzare” l’attività di uffico stampa in “spazi pubblicitari” non ha senso sotto nessun punto di vista. A parte il fatto che, evidentemente, si sta parlando solo di risultati sulla carta stampata, ignorando quindi totalmente l’online, il significato di una inserzione pubblicitaria è profondamente diverso da una citazione spontanea di un giornalista, o da un articolo. Il valore della comunicazione non è confrontabile, perchè stiamo parlando di strumenti di comunicazione diversi con obbiettivi diversi.

E da dove saltino fuori i 13.000 Euro come valore standard poi, non vale nemmeno la pena di scoprirlo.

Certo si tratta di un altro simpatico caso di mistificazione commerciale che bene non fa a nessuno, ne’ a chi si occupa seriamente di comunicazione ne’, tanto meno, alle aziende che cascano in questi ridicoli equivoci. Aziende che magari, a fine anno, armate di righellino e calcolatrice si calcolano tutte soddisfatte i loro “risultati di comunicazione” senza avere idea di dove sia la loro reputazione.

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Ah, il potere della comunicazione… (Marketing Wording Blues)

Buona settimana a tutti.

Il sito Dilbert

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