Tra le cose più frustranti che capitano a chi deve gestire come consulente la comunicazione di una azienda, c’è il dover fronteggiare uno dei vizi capitali dei comunicatori “interni” , e cioè pretendere di lanciare messaggi erso l’esterno dell’azienda utilizzando un linguaggio comprensibile solo per gli addetti ai lavori più “verticali” o addirittura un linguaggio totalmente “proprietario”.
Questo modo di comunicare (o meglio di non comunicare) esclude di fatto dalla comprensione di un testo il 95% di coloro che avranno modo di leggerlo, e (fatto non trascurabile) obbligherà comunque il giornalista ad un lavoro di traduzione per i suoi lettori; il che significa che il comunicato finirà quasi sicuramente nel cestino…
Il vizio in oggetto si esprime attraverso vari sintomi: per cominciare l’uso indiscriminato di acronimi, di cui si abusa e per di più ci si dimentica di esplicitarli. ( ho visto di recente un comunicato dove ce n’erano otto in quattro righe di testo…)
Poi ci sono gli “inglesismi” ad ogni costo, che per un profano possono non essere assolutamente facili da contestualizzare.
E infine ci sono quelle espressioni “gergali”, a volte anche sgrammaticate o improprie, che sono di uso comune e quindi comprensibili solo per una ristretta cerchia di addetti ai lavori. (o forse solo al terzo piano della sede aziendale…)
Ora, l’uso di in linguaggio tecnicamente appropriato è doveroso; lungi da me il voler semplificare o banalizzare a tutti costi.
Ma perché escludere volontariamente dalla comunicazione anche chi, magari , potrebbe essere interessato al prodotto o al servizio di cui si parla, ma non riesce a capire ciò che gli viene comunicato ? Perché ? Mah…