Pandemia e grande distribuzione

Interessanti dati Nielsen ed Iri sull’andamento della grande distribuzione. ” …le vendite nella settimana dal 30 marzo al 5 aprile hanno fatto segnare un +2,2%, risultato in linea con quello dei sette giorni precedenti. Gli acquisti online di prodotti di largo consumo sono aumentati del 158%, ritmo leggermente inferiore rispetto a quello della settimana precedente. Il trend positivo si registra nei liberi servizi (+36%), nei supermercati (+14,2%) e nei discount (+4,5%). Il calo delle vendite riguarda invece gli specialisti drug (-22,2%) e gli ipermercati (-16,3%). Continua il calo dei format Cash & Carry, sul quale pesa la chiusura del canale horeca: le vendite sono sostanzialmente dimezzate.”

https://wine.pambianconews.com/2020/04/crollano-gli-ipermercati-boom-dei-negozi-di-vicinato/189935

 

 

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Facebook e la pandemia: i numeri

I numeri di Facebook in Italia sotto covid19

- Fino al 70% in più di tempo trascorso attraverso le app da quando la crisi è arrivata nel Paese.

- Le visualizzazioni live di Instagram e Facebook sono raddoppiate in una settimana.

- Aumento della messaggistica superiore al 50% e il tempo nelle chiamate di gruppo (chiamate con tre o più partecipanti) è aumentato di oltre il 1.000% nell’ultimo mese.

https://about.fb.com/news/2020/03/keeping-our-apps-stable-during-covid-19/ 

 

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Corporate PR e pandemia.

Un articolo di PRnewsonline sulla gestione degli eventuali casi di coronavirus in azienda dal punto di vista della comunicazione.

“…By now, all companies and organizations ought to have created an internal team dedicated to monitoring news about COVID-19. In addition, the team typically makes decisions to ensure workplace safety as well as business continuity. It should have a PR pro attached to it as it communicates updates throughout the enterprise.”

https://www.prnewsonline.com/coronavirus-positive-media-inquiries-ryan/

 

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Comunicazione interna e Coronavirus

Numerosi executive di grandi aziende hanno confermato a PRWeek che la creazione di specifici centri di comando “crisis” e repository centrali per informazioni aggiornate e verificate su COVID-19 è fondamentale. Frank Shaw, vicepresidente delle comunicazioni di Microsoft, lo definisce “un centro di gravità”.

https://www.prweek.com/article/1679358/internal-comms-during-coronavirus-works

 

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Sei tipici errori nella comunicazione delle startup. (…ma non solo delle startup)

Ripropongo, dopo più di un anno, questo articolo, che mi pare ancora davvero attuale.  

Lavorare con una tech startup è un’impresa affascinante e al tempo stesso particolarmente sfidante. Collaborare per la comunicazione con una azienda molto giovane significa coglierla in una fase in cui una campagna di PR efficace può davvero fare la differenza.

Le startup si trovano in un momento unico e difficile della loro esistenza: la posta in gioco è più alta rispetto ad una azienda consolidata e per loro natura gli imprenditori che le governano spesso non hanno idea di come si lavora con una agenzia di PR e non sanno come e dove investire per promuovere il brand o lanciare un prodotto. Prendere le decisioni sbagliate costa caro, sia in termini economici, sia in termini di perdita di un momento prezioso e irripetibile nella vita dell’azienda. Vediamo alcuni tra gli errori più comuni nella comunicazione delle startup.  una tech startup è un’impresa affascinante e al tempo stesso particolarmente sfidante. Collaborare per la comunicazione con una azienda molto giovane significa coglierla in una fase in cui una campagna di PR efficace può davvero fare la differenza.

Aspettative irrealistiche.

Ci sono principalmente due modi di cadere vittima di aspettative irrealistiche. Il primo è pensare che le PR possano fare miracoli: creare storie scintillanti che cattureranno istantaneamente i media più influenti, anche in assenza di presupposti concreti. Le cose ovviamente non funzionano così e ottenere una copertura di qualità richiede tempo. Inoltre spesso il fondatore di una startup crede che la sola notizia della nascita dell’azienda e della sua idea centrale siano sufficienti a creare un interesse duraturo e fungere da motore del business; in realtà la visibilità e la credibilità del brand si costruiscono nel tempo con un flusso continuo di contenuti ben costruiti.

Non c’è differenziazione.

C’è un esercizio che tutte le startup (e non solo loro) dovrebbero fare: togliete il vostro brand e il profilo aziendale al vostro ultimo comunicato e rileggetelo. Siete ancora riconoscibili e in qualche modo identificabili? Se la risposta è no, occorre una maggiore differenziazione della vostra comunicazione. Specialmente nel mondo tech le aziende tendono a comunicare tutte nello stesso modo, utilizzando lo stesso frasario e gli stessi termini (leggete per esempio questo articolo) e questo non aiuta certo ad emergere.

Non state raccontando una storia appassionante.

Se volete catturare l’attenzione di un giornalista dovete mettervi nei suoi panni: lui vuole una sola cosa, ovvero una buona storia da raccontare ai suoi lettori. Un giornalista non vuole ricevere un depliant di vendita o una collezione di roboanti autoincensamenti: ha bisogno di qualcosa che i suoi lettori possano valutare come un contenuto di valore che arricchirà le loro conoscenze e creerà opportunità di business. Non è certo un’operazione né facile né veloce, ed è per questo che è necessario dedicare il tempo necessario all’inizio dell’attività di comunicazione per definire i messaggi, le storie e la strategia.

 State spammando.

Inviare le vostre storie o i comunicati stampa a una lista troppo vasta ed eterogenea di giornalisti sperando di raccogliere qua e là qualche successo è apparentemente comodo ed economico ma totalmente inutile. Se si vuole comunicare efficacemente occorre un lavoro di selezione ed eventualmente di personalizzazione dei contenuti, il solo modo di procedere che consente di costruire relazioni utili e durevoli con le redazioni.

Troppa fretta.

L’aspetto “tempo” è naturalmente molto rilevante. Da una parte molte startup, come del resto anche aziende già avviate che intraprendono per la prima volta una attività di comunicazione strutturata, sono così impazienti che tagliano subito il budget di PR se non vedono risultati di business significativi già nei primi tre mesi: si tratta ovviamente di un errore. Ci possono essere senz’altro motivi validi per interrompere il rapporto con un agenzia, ma l’impazienza può costare cara nel lungo periodo e questo soprattutto per una startup che si deve posizionare nel mercato. C’è anche un altro aspetto: l’azienda deve dedicare un po’ di tempo alla comunicazione e il team interno deve sviluppare temi e strategie assieme all’agenzia che li può guidare e correggere in modo da ottenere i risultati migliori. Anche il fondatore deve ascoltare le osservazioni e i consigli di un’agenzia esperta, perché spesso la sua figura ricopre un ruolo molto significativo nella comunicazione della startup.

Non c’è un punto di vista forte e distintivo.

Questo aspetto riguarda in particolare la figura del fondatore della startup. Al di là del messaging e del posizionamento, la capacità di comunicare un punto di vista forte e personale sui temi rilevanti per il mercato in cui l’azienda opera può davvero essere un elemento cruciale. In riferimento all’obbiettivo di generare coverage sui media e di cogliere e sfruttare anche le opportunità di partecipazione a seminari, tavole rotonde ed eventi di settore, la capacità del fondatore (o del manager di riferimento) di esprimere un insieme personale e rilevante di opinioni, previsioni e osservazioni, può generare un interesse forte e duraturo attorno al brand, da parte della stampa, dei clienti potenziali e degli investitori.

(Liberamente tratto e adattato da “6 Common PR mistakes made by startups” di Dorothy Crenshaw)

 

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Google Translator? No grazie.

La scarsa qualità di una traduzione uccide il valore del contenuto originale.

Non basta la conoscenza della lingua, non basta una pur corretta traduzione letterale del testo.

Per essere efficace il processo di localizzazione deve tener presente la diversa costruzione delle frasi e dei periodi, la diversa sintassi, fino al differente uso della punteggiatura.

Che si tratti di un comunicato, un white paper, una brochure, occorre una traduzione che sia una vera localizzazione dei contenuti, fatta da persone che comprendano anche il significato tecnico di ciò che deve essere tradotto, per non incorrere in ridicoli errori di comprensione.

Per sfruttare il potenziale di comunicazione di qualsiasi contenuto occorre anche questo e noi di Quorum PR siamo preparati…

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PR e SEO, brothers in arms

Con l’evoluzione degli algoritmi di Google, oggi non più ingannabili con trucchi e trucchetti di vario genere, SEO e PR hanno gradualmente iniziato ad allinearsi, sovrapporsi e fondersi. Oggi, il posizionamento di un contenuto (sotto forma di comunicato, bylind article o altro) in un media online di qualità, ha un valore immenso di business, non solo per la reputazione del brand che genera, ma ha anche il potenziale per migliorare le prestazioni di ricerca organica del sito web e delle altre properties online della tua organizzazione.

Le profonde modifiche apportate nel corso del tempo da Google per migliorare le prestazioni dell’algoritmo di ricerca, hanno reso le tecniche di pubbliche relazioni, e in particolare le media relations, preziosi strumenti per la SEO. I siti di notizie e approfondimento online affermati sono esattamente il tipo di sito di alta qualità su cui apparire e il modo per farlo è creando e offrendo contenuti di alta qualità.

Sarebbe il caso di occuparsene no?

 

 

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Dove comunica un’azienda? Occorre uno sguardo di insieme. (The Big Mix Blues)

La comunicazione non è un add-on qualunque: è uno dei motori fondamentali del business.

Per un motivo o per l’altro, capita però abbastanza spesso che le aziende abbiano una visione in qualche modo parziale o incompleta dello scenario complessivo della comunicazione aziendale e quindi “si perdono dei pezzi”, tralasciando così opportunità fondamentali  per lo sviluppo del business. Focalizzarsi solo su alcuni strumenti indebolisce il sistema complessivo della comunicazione e ne abbassa anche l’efficienza economica e l’efficacia.

Andiamo con ordine.

Gli owned media sono quelli posseduti e gestiti direttamente dall’azienda: il sito, il blog, i canali social, le newsletter, i profili dei manager e via dicendo. Qui l’azienda parla in prima persona e decide liberamente cosa dire, quando e come. Il sito ( e anche il blog) in particolare è il repository principale dei contenuti aziendali, il luogo virtuale in cui si mettono a disposizione di clienti, prospect e partner  le competenze e le esperienze che posizionano l’azienda nel mercato in cui opera.

Questa centralità degli owned media rispetto ai contenuti viene spesso trascurata, se non addirittura ignorata.

paid media sono (ovviamente) tutti quegli spazi di terze parti che vengono acquistati , quindi parliamo di advertising in tutte le sue forme, publi-redazionali, etc.

Gli earned  media sono invece quegli spazi (digitali e non) di terze parti che riprendono spontaneamente i contenuti aziendali, distribuiti e proposti dall’azienda principalmente attraverso attività di media relations / content marketing.

Il valore comunicazionale degli earned media è elevato, perché significa che un contenuto è stato ritenuto dal giornalista, blogger o influencer che sia, di interesse/valore tale da essere ripreso e riproposto al pubblico di quel sito o di quella testata cartacea. E’ un concetto molto vicino al “word of mouth” di cui sentiamo parlare nel mondo B2C.

Il punto fondamentale è che tutte le aree devono essere gestite  e presidiate come un “sistema organico”, in cui un mix adeguato di queste diverse presenze assicura non soltanto la massime efficacia in relazione allo sviluppo del business, ma anche un elevatissimo rapporto complessivo risultati/costi.

I contenuti prodotti vanno opportunamente declinati e poi distribuiti / proposti sui vari fronti, tenendo sempre presente che uno degli obbiettivi (anche se non l’unico) è quello di portare prospect, clienti e partner a consultare e approfondire i contenuti nell’area degli owned media, in particolare, come dicevamo, sito e/o blog che sono “la vera casa” del brand.

Un’ultima notazione: negli ultimi anni anche nella comunicazione B2B si è data una grande enfasi sui social media, enfasi in buona parte giustificata intendiamoci, ma forse davvero eccessiva nel momento in cui ci si dimentica del quadro d’insieme di cui sopra e si trascura un aspetto non banale: i social media, intesi come ambiente di interazione, non sono “owned” allo stesso modo di sito e blog.

Nei social media ciò che l’azienda dice ai propri follower è comunque all’interno di un grande e continuo flusso in cui è gomito a gomito con migliaia di altri soggetti che parlano più o meno contemporaneamente. Qui si ha il tempo di sollevare rapidamente l’interesse del nostro interlocutore per portarlo, magari anche in un secondo momento, ad  approfondire il tema che ci interessa sul sito/blog.

Se volessimo usare un immagine, la differenza di “profondità” del rapporto è tra incontrare qualcuno in un bar affollato e bere velocemente qualcosa insieme o invitarlo a cena a casa nostra. Voi cosa scegliereste?

 

 

 

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Interviste, meglio prepararsi.

Solo un giornalista su 10 intervistato dal Public Relations Global Network (PRGN) ha classificato le informazioni inviate dalla società o dalla sua agenzia di pubbliche relazioni come la prima fonte che utilizzano quando conducono ricerche prima di un intervista con il CEO. Ciò significa che il 90 percento dei giornalisti cerca altrove informazioni sull’azienda e sul manager e queste altre fonti potrebbero influenzare molto il tono e il contenuto della storia…

Qui l’articolo di Bianchi PR https://www.bianchipr.com/ceo-media-interview-mistake-2-not-knowing-reporters-go-research/ 

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Se l’azienda è un’isola digitale

Uno dei maggiori pericoli per le aziende che vogliono aumentare la propria visibilità in funzione del new business, è quello di investire tempo e denaro nello sviluppo e nella gestione dei propri media (sito, blog, social) ma di perdere poi il quadro di insieme della comunicazione verso l’esterno e dei meccanismi che oggi la regolano. Questo ha ovviamente come conseguenza che il patrimonio di contenuti di cui si dispone non venga adeguatamente utilizzato e sfruttato proprio e soprattutto verso l’esterno dell’ecosistema aziendale già esistente.

L’odierno scenario dei media (digitali e non) può essere visualizzato in vari modi, ma credo che questa immagine renda piuttosto bene l’idea.

La questione di fondo è: come connetto ai miei media (owned) il pubblico dei miei clienti potenziali che ancora non sono “a bordo” ?

Se non attivo dei meccanismi che portano i miei contenuti al di fuori delle property digitali che possiedo e controllo, il rischio è proprio quello di non riuscire (o faticare molto) ad ampliare il mio pubblico e quindi il mio business.

E qui sta il nocciolo della questione: se da un lato è assolutamente indispensabile creare e gestire contenuti di valore e di qualità e renderli disponibili sui media posseduti e controllati direttamente, e se è anche vero che in talune occasioni è utile/indispensabile acquistare spazi di visibilità privilegiati, è evidente che senza un’attività capace di relazionarsi al di fuori, ovvero in grado di interessare e raggiungere i numerosi media di terze parti che trattano temi chiave per l’azienda, la comunicazione è monca. Nella figura questi ultimi media sono gli “earned”, cioè le testate che, grazie ad una attività di media relations focalizzata, riprendono e ripropongono ai rispettivi pubblici i contenuti dell’azienda e promuovono quindi ulteriori approfondimenti ottenuti creando traffico verso i media aziendali.

E’ anche evidente l’impatto che tutto questo ha sui risultati delle ricerche online effettuate da potenziali clienti o partner dell’azienda. Se vengono create da testate e blog di settore delle pagine web riferite ai contenuti che abbiamo distribuito, queste vengono poi indicizzate dai motori di ricerca e conterranno (se abbiamo costruito bene i nostri testi) numerose parole chiave riferite al business aziendale: aumenterà quindi la probabilità che una ricerca effettuata su un termine chiave inerente al business specifico in oggetto porti a pagine dove si parla dell’azienda.

Ecco perché senza una attività continuativa e mirata di media relations la comunicazione aziendale nel suo complesso manca di un motore fondamentale e il sito, magari costruito a regola d’arte e su cui si sono investiti tempo e danaro, rischia di restare una splendida isola a cui però mancano “ponti” per approdare.

 

 

 

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